un passo indietro, forse di lato

“Certo, la critica è incisiva e tutto quanto, ma com’è possibile passare da questo mondo lugubre ad un’esistenza piena e genuina?” Penso che non dovremmo dubitare che questo viaggio sia possibile, né che l’esplosione necessaria per dargli inizio possa essere vicina.

graffitiIl pensiero della cultura dominante, come sappiamo, ha sempre affermato che la vita alienata è inevitabile. Infatti, la cultura o la civiltà stessa esprime questo dogma essenziale: il processo di civilizzazione, come ha osservato Freud, è il passaggio forzato da una vita libera e naturale ad una vita di continua repressione. Oggigiorno la cultura langue, desolata e logora, ovunque si guardi. Più importante dell’entropia che affligge la logica della cultura è però quella che sembra essere la resistenza attiva, per quanto appena abbozzata, che le viene opposta. Questo è il raggio di speranza che disturba la gara, altrimenti fin troppo deprimente, cui assistiamo per vedere se arriverà prima l’alienazione totale o la distruzione della biomassa.

Le persone sono imprigionate e messe alla ruota del vuoto quotidiano, e il fascino della civiltà sbiadisce. Lasch ha parlato di una rabbia quasi universale che dilaga nella società, appena sotto la superficie: sta crescendo e molteplici sono i suoi sintomi, che corrispondono al rifiuto di lasciare questo mondo insoddisfatti.

Adorno chiedeva: “Che cosa sarebbe la felicità se non fosse misurata dall’incommensurabile angoscia di fronte all’esistente?”. Di sicuro la condizione della vita è diventata un incubo tale da giustificare un simile interrogativo, e forse anche da indurre a pensare che qualcosa abbia preso una piega terribilmente sbagliata tantissimo tempo fa. Quanto meno dovrebbe dimostrare, entrando nello specifico, che i mezzi di riproduzione della civiltà dominante (cioè la sua tecnologia) non si possono usare per plasmare un mondo liberato.

Il signor Sammler di Saul Bellow si chiedeva: “Che cosa c’è di “comune” nella vita comune? E se qualche genio dovesse fare con la “vita comune” ciò che ha fatto Einstein con la “materia”? Scoprirne l’energia, svelarne la radiosità”. Ovviamente, dobbiamo tutti essere quell’”Einstein”, che è precisamente ciò che scatenerà un’energia creativa sufficiente a ridefinire completamente le condizioni dell’esistenza umana. Diecimila anni di tenebre e schiavitù, per parafrasare Vaneigem, non resisteranno a dieci giorni di rivoluzione totale, che comporterà la ricostruzione simultanea di noi stessi. Chi non odia la vita moderna? Può il condizionamento che ancora rimane sopravvivere a una tale esplosione di vita, che ne elimini inesorabilmente le fonti?

                      primitive future

Siamo chiaramente tenuti in ostaggio dal capitale e dalla sua tecnologia, costretti a sentirci dipendenti, persino impotenti, schiacciati sotto il peso dell’opprimente inerzia di secoli di categorie, modelli e valori alienati. Di che cosa si potrebbe fare immediatamente a meno?

Confini, governi, gerarchia… Che altro? Quanto tempo occorre per eliminare le forme più radicate di autorità e separazione, come la divisione del lavoro? Sono convinto, e spero non con l’atteggiamento di chi vuole applicare alla realtà un principio astratto, che non si possa concepire la libertà totale e l’interezza di vita senza la dissoluzione del potere intrinseco degli specialisti di ogni genere.

Molti affermano che milioni di individui morirebbero se l’attuale sudditanza tecno-globale al lavoro fosse eliminata insieme alla merce. Questa affermazione però non tiene conto di molte potenzialità. Per esempio, consideriamo il gran numero di persone che sarebbero libere da occupazioni manipolatorie, parassitarie e distruttive a favore della creatività, della salute e della libertà. Ora come ora, in realtà pochissimi contribuiscono in qualche modo a soddisfare bisogni autentici.

Trasportare cibo per migliaia di chilometri, occupazione per nulla atipica oggigiorno, è un esempio di attività insensata, così come lo è la produzione di incalcolabili tonnellate di veleni di erbicidi e pesticidi. Quest’immagine dell’umanità che morirebbe di fame se si dovesse tentare una trasformazione si può ridimensionare prendendo in considerazione alcuni altri aspetti dell’agricoltura, di carattere più positivo. E’ perfettamente possibile, in termini generali, coltivare il cibo di cui abbiamo bisogno. Vi sono metodi semplici, che non comportano alcuna divisione del lavoro, e consentono di ottenere grandi rese in piccoli spazi.

L’agricoltura stessa dev’essere superata, così come l’addomesticamento, perché sottrae più sostanze organiche al terreno di quante ne restituisca. La permacoltura e una tecnica che sembra tentare un tipo di coltivazione che si sviluppa o si riproduce da sola e quindi tende ad avvicinarsi alla natura e ad allontanarsi dall’addomesticamento. E’ un esempio di promettente modalità di sostentamento intanto che ci si allontana dalla civiltà. Un altro aspetto pratico della transizione è la coltivazione nelle città e un ulteriore passo verso il superamento dell’agricoltura potrebbe essere la propagazione più o meno casuale di piante.

graffitiPer quanto riguarda la vita nelle aree urbane, si dovrebbe compiere qualsiasi passo verso l’autonomia e l’autosufficienza, a partire da ora, in modo da poter poi abbandonare tanto più rapidamente le città. Create in risposta all’esigenza del capitale di accentrare il controllo delle transazioni economiche, della religione e del dominio politico, le città restano enormi monumenti devastatori della vita in onore delle stesse esigenze basilari del capitale. Si potrebbero utilizzare come qualcosa di simile a ciò che ora conosciamo come musei, cosicché le generazioni successive al sovvertimento radicale del presente possano apprendere quanto grottesca sia diventata l’esistenza della nostra specie. Strutture mobili destinate a feste e divertimenti sarebbero forse la configurazione più simile alla città che la vita disalienata potrebbe esprimere. Parallelamente all’abbandono delle città, si potrebbe verificare un’analoga migrazione dai climi freddi verso quelli più caldi. Il riscaldamento degli spazi abitativi nelle regioni settentrionali costituisce un assurdo dispendio di energia, di risorse e di tempo. Quando gli esseri umani avranno ristabilito un’intimità con la natura e saranno diventati più sani e più robusti, tali regioni probabilmente si ripopoleranno, in maniera completamente diversa.

Quanto alla popolazione, la sua crescita è un fenomeno così poco naturale o neutro come lo è la sua tecnologia. Quando la vita è fatalmente priva di equilibrio, il bisogno di riprodursi appare come una forma di compensazione dell’immiserimento, mentre i livelli della popolazione sarebbero relativamente bassi come avviene fra i raccoglitori-cacciatori non civilizzati che ancora abitano alcune regioni del mondo.

Enrico Guidoni ha osservato che le strutture architettoniche necessariamente rivelano molto del contesto sociale in cui sorgono. Allo stesso modo, l’isolamento e la sterilità delle abitazioni nella società di classe non sono affatto casuali e meritano di essere eliminate in toto. Architettura senza architetti di Rudofsky esamina alcuni esempi di abitazioni costruite non da esperti, ma frutto di un’attività comune spontanea e in continua evoluzione. Immaginiamo l’invitante vivacità delle abitazioni, ciascuna unica e non prodotta in massa, espressione di una serena reciprocità che potrebbe emergere dall’abbattimento dei confini e delle miserie artificiali, materiali ed emotive.

E’ probabile che in un mondo nuovo la “salute” sarà un problema ancor più facile da risolvere di quello dell’abitazione. La “medicina” industriale e disumana di oggi è totalmente complice dei processi generali della società che ci derubano della vita e della vitalità. Tra gli innumerevoli esempi di criminalità odierna, lo sfruttamento diretto della miseria umana deve trovarsi ai primi posti. Le pratiche di cura alternative pongono già una grossa sfida al modello dominante, ma l’unica soluzione reale è l’abolizione di un sistema che per sua stessa natura genera una serie incredibile di malattie fisiche e mentali.

Da Reich a Mailer, ad esempio, il cancro è considerato come lo sviluppo di una follia generale repressa e negata. Prima della civilizzazione la malattia praticamente non esisteva. Come poteva essere altrimenti? Da dove provengono le malattie degenerative e infettive, i malesseri emotivi e tutti gli altri disturbi se non dal lavoro, dalla tossicità, dalla città, dall’estraniazione, dalla paura, dall’insoddisfazione, dall’intero tessuto di una realtà deteriorata e alienata? Distruggendone la fonte si sradicherà la sofferenza. I piccoli disturbi si potrebbero trattare con erbe e rimedi analoghi, senza parlare di una dieta basata su alimenti sani e non trattati.

E’ evidente che non ci si può liberare in un istante dell’industrializzazione e delle fabbriche, ma è altrettanto chiaro che se ne deve perseguire l’eliminazione con tutto il vigore nell’impeto dell’attacco. Questa riduzione in schiavitù degli individui e della natura deve scomparire per sempre, cosicché parole come produzione ed economia si svuotino di ogni significato. Un graffito del maggio ‘68 in Francia diceva semplicemente “Adesso!”. I fautori di quella ribellione avevano evidentemente compreso la necessità di andare rapidamente fino in fondo, senza temporeggiare né scendere a compromessi con il vecchio mondo. Una rivoluzione a metà non farebbe altro che preservare il potere e cementare la sua presa su di noi.

Una vita qualitativamente diversa comporta l’abolizione dello scambio, sotto qualsiasi forma, a favore del dono e dello spirito del gioco. Al posto della coercizione al lavoro – e quanto del presente potrebbe continuare senza quel tipo preciso di coercizione? – l’obiettivo centrale ed immediato è un’esistenza priva di imposizioni: il piacere senza impedimenti, l’attività creativa sul modello di Fourier, secondo le passioni dell’individuo e in un contesto pienamente egualitario.

Che cosa conservare? Gli strumenti che consentono di “risparmiare lavoro e fatica”? A meno che non comportino alcuna divisione del lavoro (ad esempio, una leva o uno scivolo), questa nozione è pura fantasia; dietro il termine “risparmiare” si cela il duro lavoro di molti ed il saccheggio del mondo naturale. Come ha affermato il gruppo parigino Interrogations: “Le ricchezze di oggi non sono ricchezze umane; sono ricchezze per il capitalismo, che rispondono all’esigenza di vendere e stupire. I prodotti che fabbrichiamo, distribuiamo e amministriamo sono l’espressione materiale della nostra alienazione”.

Alla prospettiva o possibilità di trasformare la vita, viene opposto fin dal primo momento qualsiasi tipo di timore e dubbio. “La rivolta non significherebbe disordine, assalti, violenza, ecc.?” Tuttavia, le insurrezioni popolari sembrano dare espressione concreta a forti sentimenti di gioia, unità e generosità. Considerando gli esempi più recenti negli Stati Uniti, le insurrezioni urbane degli anni sessanta, New York nel 1 977 e Los Angeles nel 1992, si rimane soprattutto colpiti dalla condivisione spontanea, dal drastico calo della violenza interraziale e della violenza contro le donne, e persino dal clima festoso.

Il maggiore ostacolo sta nel dimenticare il primato del negativo. L’esitazione, la coesistenza pacifica: questa mancanza di desideri si rivelerà fatale se le si consente di prevalere. Il vero impulso umanitario e pacifico è quello che si dedica a distruggere implacabilmente la dinamica malefica nota come civiltà, a partire dalle sue radici. Il tempo è un’imposizione coercitiva e limitante della cultura, attribuire nomi significa esercitare un controllo, come contare, ed è un aspetto dell’allontanamento del linguaggio. Al punto estremo cui siamo arrivati possiamo scorgere la necessità di un completo ritorno alla terra, all’intimità di tutti i sensi con la natura, quella raggiunta prima che la simbolizzazione trasformasse l’esistenza in una caricatura reificata e separata di se stessa. Questa volta se ne potrà assaporare il fascino ancor più felicemente: ora sappiamo quello che i nostri antenati non hanno capito che andava evitato.

Si può cominciare subito a spaccare il cemento, come consigliò una volta il mio amico Bob Brubaker.

Letteralmente: sotto il pavé la spiaggia!

 

j.zerzan 

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